Omelia del Vescovo Michele nella messa di fine anno

Omelia del Vescovo Michele nella messa di fine anno

Non mi sento di fare bilanci, non ne sono capace, per una storia che presenta lavori ancora in corso, soprattutto alla fine di un anno come quello trascorso. A che punto siamo?

L’avevo scritto anche l’anno scorso, la vita non ha bisogno di bilanci, ma di sguardi di verità e di coraggio.

Vorrei vivere con voi questo passaggio di anno, questo momento simbolico di passaggio solamente come una preghiera. Basta quella che ci consegna la lettera ai Galati. Basta quella semplice espressione che è il dono più grande fatto all’umanità, che diventa il suo – il nostro – vero ed autentico respiro, il pulsare della vita dell’anima che si fa storia vera: “Abbà, Padre”.

Vorrei che riuscissimo ad immergerci in queste due parole, nel mondo grande come l’eternità e ampio come Dio che la pronuncia di queste due parole è capace di dischiudere e di generare. Potremo gustare così insieme lo stupore nel sentirci pronunciarle.

Abbà! Padre!

Lo Spirito raccoglie in noi tutte le aspirazioni, i bisogni, i desideri. Riesce a partire da ogni nostra paura e difficoltà e a trasformarli in un affidamento che trasforma la vita. Lo Spirito non lascia che nulla marcisca nascosto nel cuore, ma permette ad ogni situazione, anche la più intricata, di diventare un’occasione di redenzione, di salvezza, di vero bene.

Mi piacerebbe che sentissimo, che percepissimo che ogni nostro bisogno viene preso sul serio da Dio e che ne riceve una risposta.

Mi piacerebbe che percepissimo che il momento presente così incerto, difficile, sospeso, conflittuale, può trovare una consolazione, una nuova rafforzata solidarietà che non derivi dalla paura di un nemico comune, ma dalla forza di una comune origine che è la Paternità amorevole di Dio. “Abbà, Padre” mi dona di vedere ogni fratello e ogni sorella con lo stesso sguardo amorevole, senza residui e senza limite, con cui il Padre ci guarda, attraverso il Figlio amato. Attraverso il Verbo che è prima di ogni cosa, attraverso la sua Incarnazione che lo vede per sempre Figlio dell’uomo, uno di noi, e così anche noi eternamente ricompresi in Dio, in un abbraccio eterno.

Abbà! Padre!

Avere lo Spirito del Figlio eterno di Dio nei nostri cuori che grida con noi e per noi queste parole è il dono più grande del Natale, il centro di tutto ciò che celebriamo, il centro, in definitiva, di tutta la nostra vita e il punto verso cui orientare il cammino nel passaggio di anno.

Il Figlio di Dio viene mandato da Dio Padre a condividere la nostra condizione umana – nato da donna – e la storia concreta del popolo di Israele – nato sotto la legge – per farci entrare in una relazione nuova, profonda, intima con Lui: diventare davvero «figli»: eredi, partecipi della stessa pienezza di vita di Dio stesso.

Abbà! Padre!

Grazie perché ci assicuri che siamo figli. E, dunque, fratelli e sorelle. Grazie perché susciti in noi l’inquietudine finché non abbiamo accolto ogni persona come nostro fratello da comprendere e da amare, per amor tuo. “Abbà, Padre”: ed ecco che attorno a me non c’è più una folla anonima, non una somma di individui che calcolano ciascuno il proprio interesse, non una compagnia di soci o un’accolta di avversari e concorrenti, ma fratelli e sorelle, che con la stessa fiducia e lo stesso abbandono rischiano di dirti Abbà – papà – rischiando la resa alla tenerezza, lasciando da parte il conflitto, la contrapposizione e l’odio.

Abbà! Padre!

diventa preghiera di lode e di ringraziamento per ogni persona che si è comportata concretamente da fratello e da sorella prendendosi cura degli altri con i suoi comportamenti, le sue decisioni, il suo stile di vita. Per chi ha continuato a impegnarsi per il bene comune, per chi ha scelto di essere fedele alla propria responsabilità verso ciascuno e verso tutti. Per chi non si chiude in se stesso. Per ogni buon samaritano che non antepone i suoi progetti ai bisogni e alle necessità degli altri.

Abbà! Padre!

Grazie perché mi fai vivere e sentire la tenerezza del tuo essere papà, non soltanto un Dio lontano ed astratto, ma una presenza buona e piena di consolazione che non mi abbandona, e perché proprio a me permetti di essere figlio che si fida, che si lascia prendere per mano, che sa di non essere da solo.

“Abbà” dice quasi il primo balbettare all’aurora di una relazione, il primo passo che apre un cammino, una prima parola che apre ad un dialogo, anche serrato, tra noi e Dio, permette quell’apertura del cuore che permette allo Spirito che prega in me di dirmi, di comunicarmi in maniera certa l’infinito amore di Dio per me. Non sono solo. Nemmeno là dove le solitudini sembrano macigni inamovibili, talmente incancrenite da sembrare superabili solamente con una radicale ritirata, senza possibilità di uscita dignitosa. Abbà infrange una corazza e riapre possibilità di vita vera.

Abbà! Padre!

è il grido di Gesù, nell’orto degli ulivi, chiede con forza: “Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La preghiera del bisogno e dell’abbandono, la scelta del dono di sé nel momento in cui si misura tutto il prezzo da pagare per un amore che può essere soltanto divino, ma che è necessario affinché l’umanità possa finalmente giungere a pienezza.

“Abbà, Padre”

è grido di ogni figlio che si trovi nella necessità e nella prova, anche suprema. In chi si trova nella crisi dell’esistenza e che rischia di non trovare significato, ruolo, un posto nel mondo.

Di chi non ha lavoro o che rischia di perderlo, di chi non vede rispettata la propria dignità di persona, di chi soffre violenza o discriminazione, di chi viene stritolato dai meccanismi di sopraffazione e di abuso che ancora oggi sono potenti e spietati, in tutto il mondo. È il grido dell’abbandonato, di chi vede crescere in sé solo il risentimento, di chi si vede abbandonato al margine della strada dal corteo trionfante della storia, di chi vorrebbe gridare e la cui voce rimane soffocata in gola.

“Abbà Padre”

è il grido tutto umano che riecheggia, amplifica e porta a responsabilità reale il grido del creato che “geme e soffre nelle doglie del parto”, è la fatica di generare vita nuova che rischia di rimanere inespressa se non diventa preghiera prima, e poi impegno coraggioso per relazioni più giuste, e per stili di vita realmente sostenibili: conversione ecologica.

“Abbà Padre”

raccoglie tutte le invocazioni dell’anno appena trascorso, tutte le strade iniziate e poi impedite ed interrotte, quelle ritrovate e percorse soltanto per un breve tratto, e con tanta fatica; quelle che si sono aperte, promettenti e che abbiamo appena incominciato a percorrere, tra trepidazione e speranze.

“Abbà Padre”

è grido che risuona nuovo e apre l’orecchio e il cuore ad un rinnovato ascolto di quanto pensavamo già di conoscere, è occasione di vivere il cammino sinodale come un’occasione di autentica fraternità, di quella relazione reciproca di cui abbiamo bisogno più che dell’aria che respiriamo: se riuscissimo anche solo a renderci conto che noi viviamo solamente nelle e delle nostre relazioni, e che isolati siamo falliti, senza futuro, perché fuori dalla paternità di Dio, unico fondamento del reale.

Ecco: oggi la Parola ci consegna le Parole – che sono il respiro dello Spirito di Dio nel nostro cuore – di questa preghiera, sigillo su di un anno che passa, apertura di orizzonte di quello che si apre: “Abbà, Padre”.

(Vescovo Michele Tomasi – Omelia nella celebrazione Eucaristica di fine anno 2021 – Cattedrale di Treviso – 31 dicembre 2021)