Domenica della misericordia: l’omelia del vescovo in Battistero

Domenica della misericordia: l’omelia del vescovo in Battistero

Una celebrazione eucaristica con al centro il tema della misericordia, nella domenica “in albis” della Divina misericordia, voluta da papa Giovanni Paolo II esattamente 20 anni fa, la domenica dopo la Pasqua: è quella che ha presieduto il vescovo Michele oggi domenica 19 aprile nel Battistero della Cattedrale di Treviso. Una messa che il Vescovo ha concelebrato con il vicario generale, mons. Adriano Cevolotto, e con il proprio segretario, don Matteo Andretto, presenti le poche persone che lo accompagnano in queste occasioni, trasmesse in diretta su Antenna 3 e in streaming sui siti diocesani. Nell’omelia il Vescovo ha tratteggiato la novità di vita che viene dal Battesimo e dall’incontro con la misericordia del Signore Risorto, che fa essere persone di speranza, capaci di dare forma nuova alle nostre relazioni, nella gioia e nella gratuità, in famiglia, nella Chiesa, nella società, sapendo lavorare per “un’economia che funziona proprio perché non rinuncia ad essere umana e sostenibile”, disposti a “rivedere il senso e il fine del nostro stile di vita”.

“Il Vangelo di Giovanni racconta dei discepoli ancora chiusi in casa per paura e di Gesù che viene e sta in mezzo a loro, pronuncia un saluto di pace, dona loro il suo Spirito e una capacità e un compito nuovo agli apostoli e alla sua Chiesa: perdonare è il grande dono del Risorto. Gesù ci mostra che il Padre è Dio di misericordia” ha sottolineato il vescovo Michele.

“Già allora – in quella sala, con gli apostoli, dopo l’incontro anche con Tommaso, e la professione di fede appassionata di questo apostolo – Il Signore Risorto parla di noi, e ci definisce beati: “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Sì, carissimi, siamo beati” ha ricordato il Vescovo.

“Il frutto di questa novità è “una speranza viva”, la capacità di vedere anche nella prova che ci è dato di poter vivere e amare, e di credere che l’orizzonte stesso della morte non è il muro insuperabile, il buio che assorbe ogni bellezza, ma il passaggio ad una vita di eterna consolazione e luce”. Con il risorto “siamo pronti a dare una forma nuova alle nostre esistenze, alle nostre relazioni” ha detto il Vescovo, come quelle, nuove e rivoluzionarie, che viveva la prima comunità dei cristiani a Gerusalemme: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. “Ecco tratteggiate in poche righe nuove forme di relazione sociale ed economica, strettamente legate alle esperienze di preghiera nel tempio e allo spezzare il pane nelle case – ha ricordato il Vescovo -. Questo modo di vita – in cui le persone non tentano di vivere le proprie scelte da sole, ma assieme agli altri e per gli altri, dove chi più possiede mette a disposizione di tutti i suoi beni, e chi ha bisogno trova nella rete delle relazioni quanto gli serve per vivere e per fiorire – tutto ciò è l’anima di infinite esperienze di comunione e di solidarietà vissute dalle comunità cristiane nel corso della storia della Chiesa ed ancora oggi”.

“Si tratta, in fondo, di estendere alla società la logica di ogni famiglia che viva con semplicità la verità delle proprie relazioni. Io davvero non so che forma assumerà la cosiddetta “fase due” di cui tanto – e giustamente – stiamo parlando in questi giorni – ha ricordato mons. Tomasi -. Non so come sarà il nostro mondo nel futuro prossimo, non so se saremo capaci di imparare lezioni di amicizia, di collaborazione, lezioni di umanità da quanto stiamo vivendo. Ma il compito della comunità dei cristiani è segnato: possiamo e dobbiamo ricominciare da qui. Dalla frazione del pane, dall’Eucaristia cui ci aggrappiamo con tutte le nostre forze, con l’ostinazione di chi sa che questa mensa è fonte di vita, convocazione di un popolo che qui impara a essere profezia e dono di solidarietà, di giustizia e di pace. E che questo lungo digiuno ci insegni almeno ad andare un po’ più in profondità. Ripartire dalla famiglia che è il luogo – possibile ma bisognoso di sostegno e di cura – della vita assieme, del dono gratuito senza riserve, della fatica e della benedizione delle relazioni lunghe, fedeli, affidabili, gratuite. Il luogo del condividere e del pregare, il luogo della celebrazione della vita, il luogo della gioia e della speranza”.

“Ripartire, infine, dall’impegno di tutti e di ciascuno – la conclusione – per uno sforzo collettivo di creatività e di inclusione, di sviluppo e di condivisione, convinti che sia possibile un’economia che funziona proprio perché non rinuncia ad essere umana e sostenibile. E se non troveremo le ragioni per una grande collaborazione di tutti, se non saremo disposti a rivedere il fine e il senso del nostro stile di vita, sarà il sistema intero ad uscirne più debole e fragile, perché tutti siamo legati a tutti e non ci si salva da soli. Ma se partiamo da qui, scopriremo che è proprio vero: siamo beati, siamo benedetti”.